1822, a Verona i sovrani che hanno ripristinato l’ancien régime dopo la caduta di Napoleone, ad allietare il concilio fu Gioachino Rossini.
Se chiedete a qualcuno l’anno in cui si svolse la prima stagione lirica areniana, molto probabilmente vi risponderà «Il 1913!». Il che è corretto solo in parte perché, se è vero che con quella storica Aida il tenore Giovanni Zenatello, l’impresario teatrale Ottone Rovato, il direttore d’orchestra Tullio Serafin, il maestro del coro Ferruccio Cusinati e lo scenografo Ettore Fagiuoli hanno trasformato ufficialmente l’Arena in una delle culle mondiali dell’opera, lo è altrettanto che non sono stati loro i primi a pensarci.
Fu infatti nell’estate del 1856 che l’impresario Nunziante ebbe l’idea di offrire ai veronesi l’opportunità di assistere a quattro spettacoli musicali nella cornice del grande anfiteatro, già sfruttato per la prosa, le fiere, le parate, la caccia dei tori, i giochi e le gare sportive. Il cartellone prevedeva due creazioni di Pietro Lenotti (la farsa Il casino di campagna e il ballo in sette quadri La fanciulla di Gand) e due opere di Gaetano Donizetti (Le convenienze ed inconvenienze teatrali e I pazzi per progetto). La positiva risposta del pubblico fece sì che, di lì a breve, venissero allestiti anche L’elisir d’amore e Il barbiere di Siviglia, ma purtroppo il successo non bastò ad avviare la tradizione consolidata che oggi conosciamo.
Se però si parla di coloro che per primi scommisero sulle potenzialità derivanti dal portare la lirica in Arena, bisogna andare ancora più indietro nel tempo e perché le persone in causa sono il geniale compositore Gioachino Rossini e il principe Klemens von Metternich, lo statista paladino della Restaurazione e mente del Congresso di Vienna.
L’anno è il 1822 e, da ottobre a novembre, Verona ospita il Congresso dei Grandi, che vede riuniti i membri della Santa Alleanza (ossia i sovrani, i dignitari e i diplomatici che hanno ripristinato l’Ancien Régime in Europa dopo la caduta di Napoleone) e i notabili d’Italia. Oltre a Metternich sono presenti l’imperatore Francesco II d’Asburgo-Lorena, lo zar Alessandro I, il conte Karl Vasil’evič Nesselrode, Sir Arthur Wellesley (primo duca di Wellington), il principe Karl August von Hardenberg, il conte Christian Günther di Bernstorff, il duca Mathieu Jean Felicité de Montmorency-Laval, il visconte François-René de Chateaubriand, Ferdinando III d’Asburgo-Lorena (Granduca di Toscana), il re Carlo Felice di Savoia, il re Ferdinando I di Borbone, il conte ambasciatore Giorgio Mocenigo e il legato pontificio cardinale Giuseppe Spina. Nonostante la comunione d’intenti e la rilevanza dei temi da discutere (la situazione politica italiana, la guerra d’indipendenza greca e la ribellione spagnola), l’atmosfera non è per nulla rilassata.
Memore dell’importante contribuito dato dalla musica di Ludwig van Beethoven al Congresso di Vienna, Metternich invia a Rossini una lettera in cui gli chiede di allietare l’illustre concilio con due cantate celebrative, da eseguirsi una in Arena e l’altra al Teatro Filarmonico. «Vedendo che ero il dio dell’armonia» ricorderà in seguito il compositore pesarese, «Metternich mi scrisse: sarei andato a suonare dove l’armonia era così terribilmente necessaria?» Oltre a condividere con il principe almeno due passioni (la buona tavola e le belle donne), Rossini ne apprezza l’intelligenza, per cui accetta e arriva a Verona con la moglie Isabella Colbran. Lì diventa subito amico di Chateaubriand (padre del Romanticismo letterario francese e suo sincero ammiratore), ma l’impressione che ha degli altri Grandi d’Europa non è altrettanto positiva. «La Santa Alleanza non era né santa, né un’alleanza» commenterà più avanti.
Eppure è proprio così, La Santa Alleanza, che Rossini intitola la cantata destinata all’Arena, mentre per quella del Filarmonico (Il vero omaggio) decide di rielaborarne una composta l’anno precedente (La riconoscenza), sperando che nessuno se ne accorga. Ma alla censura non interessa tanto l’originalità della musica quanto tenere sotto controllo il librettista, il veronese Gaetano Rossi (che per Rossini ha già firmato La cambiale di matrimonio, 1810 e Tancredi, 1813), colpevole di aver lavorato alla corte napoleonica e quindi altamente sospetto. La paura che nei versi de La Santa Alleanza si celino oscuri messaggi rivoluzionari è tale che Rossi si trova costretto a riscriverli ben tre volte prima di ottenere il nulla osta.
La Santa Alleanza viene rappresentata in Arena il 24 novembre 1822 con centoventotto strumentisti (provenienti da varie bande militari di stanza nel veronese) e centoventuno fra cantanti e ballerini, accompagnati da carri a tema mitologico, schiere di figuranti in costume e luminarie ad effetto. I danzatori sono inoltre divisi in quattro gruppi (impegnati in altrettante diverse coreografie), che ruotano progressivamente per far sì che sia possibile ammirarli da ogni posizione. Tutti si godono l’evento tranne Rossini, il quale, dovendo dirigere l’orchestra sotto il monumento alla Concordia (da lui definito l’unica concordia esistente fra i “santi alleati”), trascorre lo spettacolo in preda all’inconscio timore che la statua di marmo gli cada addosso come monito generale.
Per fortuna fila tutto liscio, sia quella sera, sia il 3 dicembre, data in cui al Teatro Filarmonico Giovanni Battista Velluti (l’ultimo dei grandi castrati) canta Il vero omaggio insieme a due tenori, un basso, il coro e l’orchestra. Assolti gli obblighi, Rossini lascia Verona, ma la sua musica torna a risuonare in Arena il 31 giugno 1842, quando vi viene trionfalmente eseguito lo Stabat Mater.
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