Torna quest’anno per la quarta volta in Arena Madama Butterfly di Giacomo Puccini, per la regia di Franco Zeffirelli (2004).
Dopo due anni di assenza torna al 95° Opera Festival Madama Butterfly, e con essa l’allestimento che Franco Zeffirelli immaginò per la piccola “farfalla” già nel 2004, in occasione del centenario della prima rappresentazione alla Scala di Milano. All’Arena di Verona l’opera pucciniana firmata dal regista e scenografo fiorentino torna quindi per la quarta volta dopo essere andata in scena nel 2006, 2010 e 2014. Una versione “kolossal”, che al primo debutto, staccò 14.500 biglietti.
L’obiettivo di Zeffirelli inquadra Madama Butterfly nel quartiere dei piaceri di Nagasaki, “posato su una ridente collina coperta di siepi fiorenti, di pini e di bamboo, da cui si può godere di una vista straordinaria sulla città e il porto”. Ecco dunque aprirsi un villaggio giapponese, con dovizia di particolari paesaggistici e umani, in pieno stile cinematografico, e anche un po’ presepistico, nel quale prende vita un brulichio di figure, venditori ambulanti, passanti, prostitute (190 le persone in scena nel 2004), che all’improvviso spacca in due la scena per far avanzare la casetta di Cio-Cio-San (Butterfly). Un’elegante struttura che aprendosi a vista, invita lo spettatore a compartecipare del suo dramma, riuscendo a raccontare l’intimità della vicenda anche in uno spazio così vasto. Con la produzione 2017 (prima recita l’8 luglio) torneranno i sontuosi costumi di Emi Wada, 240 pezzi unici di raffinata bellezza.
Scritta per un’ambientazione cameristica, il cui involucro era destinato a proteggere l’intimo dramma di un’attesa struggente e interminabile, l’opera di Puccini calata nella maestosità dell’Arena deve aver dato del filo da torcere anche a registi e scenografi cimentatisi nelle edizioni precedenti al centenario (cinque dal 1978). I quali, per rispondere alle attese di un pubblico spesso impreparato a un linguaggio così introspettivo ed evoluto, lontano dalla tradizionale spettacolarità delle opere verdiane, si sono sbizzarriti in soluzioni davvero inedite.
Madama Butterfly in Arena
Così è stato per la prima Madama Butterfly in Arena (1978), affidata a regia, scenografia e costumi di Beni Montresor. “Farfalla tra le pietre”, titolava l’Arena del 29 luglio di quell’anno. L’idea fu quella di rendere l’abitazione di Cio-Cio-San una casa della morte, suggestione poi ripresa, sia pur in uno stile più futuristico, nell’allestimento del 1997, sempre a sua firma. Una scelta che trovò apprezzamento solo presso parte della critica, ma che certamente costituì una sfida semantica.
«Non imbottirò questa Butterfly con masse di comparse per cercare di farne ciò che si dice uno spettacolo areniano», spiegava Montresor. «Tutto resterà come è nel libretto: una storia a unico personaggio, un lungo solitario grido d’amore». Al quale lo scenografo dedica tuttavia un ampio spazio luminoso che occupa quasi tutta la scena. Sul cui perimetro si eleva una struttura lignea lineare – esile quanto la sua stessa inquilina – che nello sfondo appare sovrastata dalle agitate acque (presagio di morte?) del porto di Nagasaky.
Del tutto innovativa e di grande impatto scenico, nel 1987, la soluzione del soprano Renata Scotto, inedita regista per il terzo allestimento dell’Opera in Arena, e Ferruccio Villagrossi, scenografo, che per aprire quelle ali di farfalla nella realtà mai dischiuse, escogitano un gigantesco ventaglio adagiato sulla gradinata dell’anfiteatro, dietro lo shoji (divisorio tipico degli arredi giapponesi). “Sette enormi fette prolungano come incombenti dita di una mano il quadretto orientale ricostruito in primo piano e delimitato da una coppia di ponticelli”, scriveva il critico Angelo Foletto su Repubblica. Un allestimento che gioca di contrasti, sentimentali e scenici. I pannelli decorati con alberi fioriti, profili montagnosi, stormi di uccelli, si oppongono al severo taglio romano delle pietre areniane. A occhio, una delle più eleganti produzioni a cielo aperto di Madama Butterfly.
L’allestimento del 1997 è nuovamente di Montresor, che dedica la sua seconda Butterfly al soprano bulgaro Raina Kabaivanska, in congedo dal ruolo di Cio-Cio-San dopo averlo interpretato per molti anni. La solitudine e il dramma della sventurata fanciulla trovano, questa volta, espressione in una scenografia minimalista e stilizzata in cui domina il colore bianco. Bianca è la nave attesa dalla giovane geisha, sposata “per gioco” e poi abbandonata. Bianco è il candore del sentimento per il tenente di marina Pinkerton, cucito sulle sue stesse vesti. Ma bianca è altresì la morte.
Nell’immaginario del regista scenografo, che al 75° Festival Lirico si conferma “un mago del palcoscenico”, il dramma di Cio-Cio-San si scioglie in un composto corteo di personaggi, simile a un rito funebre svolto sull’altare dell’amore e officiato da una donna assistita amorevolmente da un’altra donna. Una versione, la sua, ripulita da ridondanze orientaleggianti. In cui alberelli fioriti, ponticelli rustici e momenti leziosi, si riducono a una pedana lucida e spoglia, che riflette interpreti quasi eterei, e la casa a soffietto diventa una sola parete scorrevole. Al centro un grande disco bianco, luna e sol levante insieme. Perché «Cio-Ciò-San ha ben poco di giapponese», diceva Montresor, «ha una passionalità tutta italiana», evidente soprattutto nel rapporto con la devota Suzuki.
Ma c’è anche un Puccini “tridimensionale” tra le rassegne areniane. È quello del 1999, con Daniela Dessì nel ruolo di Cio-Cio-San e Salvatore Licitra in quello di Pinkerton. Un allestimento sofisticato, con cui Madama Butterfly debutta nella tecnica “Operama”, siglata da Antonio Mastromattei e Patrick Watkinson, autori di impianto scenico e immagini. Su un gigantesco telone da schermo (500 mq) posizionato sulla gradinata vengono proiettate sagome in movimento dai motivi floreali e paesaggistici. Un escamotage per dare profondità alla scena e dinamicità alla vicenda, altrimenti relegata alla casetta giapponese. In questa edizione, diretta da Paolo Miccichè, ipertecnologica per l’epoca, fa inoltre la sua prima comparsa il microfono, introdotto per traghettare la melodia pucciniana in ogni più recondito spazio dell’anfiteatro.