Il regista fiorentino snellisce i cambi scena nonostante l’utilizzo parziale dello spazio scenico dell’Arena di Verona. Ottima la direzione di Francesco Ivan Ciampa.
Paradossalmente Turandot, la grande ”incompiuta” di Giacomo Puccini, è considerata, al contrario, il suo lavoro più compiuto. Ciò per la ricchezza del linguaggio armonico e per il fatto che qui il compositore riesce a condensare tutti gli elementi della sua poetica: il lirico, l’eroico, il comico e l’esotico. In merito a Turandot egli stesso confidava, pochi mesi prima di morire: «Penso ora per ora, minuto per minuto a Turandot, e tutta la mia musica scritta fino ad ora mi pare una burletta e non mi piace più».
Benché incompiuta e ultimata alla meglio da Franco Alfano, su una drammaturgia che porta ad un lieto fine che stride con quanto avviene fino al sacrificio di Liù (e che avrebbe creato difficoltà anche allo stesso Puccini), è comunque tra le più rappresentate opere in tutto il mondo. Infatti Turandot è di casa anche all’Arena di Verona, dove per numero di rappresentazioni segue immediatamente Aida, Carmen e Nabucco. Alla sua quarta ripresa, dopo l’esordio nel 2010, l’allestimento di Franco Zeffirelli continua a farsi apprezzare per gli effetti spettacolari e per la sua funzionalità. Il colpo d’occhio sull’imponente palazzo imperiale, splendidamente illuminato, strappa applausi di stupore e mitiga in parte il disappunto per aver dovuto attendere tutto il primo atto prima di vedere l’intero grande spazio scenico.
Fino al secondo atto, infatti, l’azione si svolge nello stretto corridoio compreso tra il fondale a grandi pannelli divisori, che nascondono la grande scena retrostante, e il proscenio. Per quanto ristretto, in questo spazio c’è da subito un grande movimento di popolani, guardie, soldati, ragazzi, sacerdoti, che inizia prima ancora della musica, e prima che molti ritardatari abbiano preso posto in platea, ben oltre l’orario ufficiale d’inizio spettacolo (disorganizzazione o maleducazione?).
In quest’opera le masse, coro, comparse e danzatori, sono protagoniste sia dal punto di vista musicale che da quello scenico, chiamate a movimentare la scena in modo naturale e anche ad eseguire movimenti coreografici coordinati di bell’effetto (per esempio i movimenti all’unisono di braccia e mani), per quanto in alcune occasioni un po’ troppo di maniera. La separazione dello spazio scenico in due parti, al di qua e al di là dei grandi pannelli con riproduzioni di immagini dell’iconografia cinese, offre il vantaggio di poter evitare lunghi ed elaborati cambi scena. Il coro, così come tutto il popolo, si ritrova sempre compattato ai piedi della spianata del palazzo, in una zona in penombra, che contrasta con la luminosità della scena sovrastante, e sottolinea ulteriormente la diversa classificazione e separazione sociale. C’è una netta linea di demarcazione tra questi due mondi: il “mondo di sotto”, in penombra, dove brulica il popolo cencioso, e il “mondo di sopra”, in piena luce, dove tutto è dorato e il popolo della corte veste abiti sfarzosi (i bellissimi costumi di Emi Wada). Musicalmente questa disposizione aiuta la performance del coro, che può essere preciso nell’esecuzione e avere un consistente impatto sonoro.
La direzione di Francesco Ivan Ciampa è stata efficace: molto precisi gli interventi, anche degli interni corali e orchestrali, dove la distanza e la mancanza del contatto visivo diretto con il direttore avrebbero potuto dare altri esiti. Le puntuali indicazioni, ritmiche e dinamiche, dimostrano un’alta attenzione ai particolari, che assieme al giusto dosaggio dei volumi ha reso l’esecuzione pregevole. Detto del coro, diretto da Vito Lombardi, va sottolineata anche la prestazione del Coro di Voci bianche A.d’A.MUS. preparato da Marco Tonini.
Questa seconda rappresentazione di Turandot (2018-07-05) ha visto impegnata Rebeka Lokar nel ruolo del titolo, la quale ha ben evidenziato il carattere altero, freddo ma anche fragile della principessa. Voce potente ed estesa, ha ben figurato in ogni intervento. Murat Karahan è stato un Calaf espressivo, che ha mostrato la passione e l’intemperanza del giovane principe. Dotato di un timbro scuro, quasi baritonale nella tessitura grave, ha tuttavia sorpreso per la facilità degli acuti, mostrando buona predisposizione alla scrittura pucciniana. Meritevole e generosamente bissato il suo “Nessun dorma”.
Ruth Iniesta non poteva esordire meglio nel ruolo di Liù. Voce graziosa e allo stesso tempo consistente, facile nella gestione del suono in tutta la tessitura, ha caratterizzato benissimo il personaggio della fedele schiava del re dei Tartari. Giuste ovazioni finali per lei da parte del pubblico. Buona la prova di Giorgio Giuseppini nei panni di Timur, del quale ha tratteggiato la dignitosa mestizia, grazie a presenza scenica e un bel timbro di basso. Scenicamente godibili i tre ministri imperiali Ping, Pong e Pang (Federico Longhi, Francesco Pittari e Marcello Nardis), vocalmente però un po’ sbilanciati, hanno dato una prestazione d’insieme meno interessante di quanto ci si aspetta solitamente da questo particolare trio.
Nel complesso uno spettacolo di ottimo livello, piacevole e soddisfacente sotto molti punti di vista. Spiace che gran parte del pubblico della platea non se ne sia reso conto e non abbia ricambiato adeguatamente lo sforzo messo in campo, fuggendo quando ancora il direttore non aveva posato la bacchetta dopo l’ultima nota. Ma si sa che se il fenomeno è più turistico che musicale questo purtroppo può succedere.
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